Tra le grandi personalità artistiche che animarono il primo ventennio del Novecento toscano, Ardengo Soffici risulta l’autentica chiave di volta. Testimone e protagonista insieme con Amedeo Modigliani e Lorenzo Viani delle avanguardie parigine, interventista tra futurismo artistico e letterario, Soffici fu tra i primi propugnatori del ritorno alla pittura tradizionale italiana, in particolare quella toscana, recuperando un percorso ideale che collegava la scultura degli Etruschi con quella di Donatello, e ritrovando in pittura il fascino dei “primitivi” del primo Rinascimento.
Millenovecentodiciannove è un dipinto, ma anche un anno spartiacque per l’artista: sarà il momento del suo trasferimento a Poggio a Caiano - dove tutt’ora il Museo Soffici testimonia la stagione più importante della carriera - un quartiere generale da cui Soffici detterà le linee di una nuova poetica: la tavolozza tende ad una frugalità compositiva che riporti armonia con la natura, con una quotidianità estirpata dalla guerra. Attraverso la figura del reduce lacero e dal passo malfermo, Soffici riesce qui a dar voce ai tanti soldati italiani sopravvissuti alle trincee della prima guerra mondiale e al loro disagio per il difficile reinserimento nella vita civile. Gli anni fra 1929 e 1930, a cui risale il dipinto, sono quelli in cui l’artista si concentrava sulla materia pittorica dell’affresco, tecnica con cui avrebbe realizzato il Tabernacolo di Fognano a Montale, per cui era senz’altro memore delle pitture murali di Masaccio nella Cappella Brancacci al Carmine di Firenze. Proprio da Masaccio sembra trarre origine il realismo drammatico con cui Soffici tratteggia la figura dolente del reduce.