Il grande dipinto appare come una tipica composizione di Mattia Preti, detto il Cavalier Calabrese per la sua origine e per i titoli meritati negli anni della sua attiva carriera a Roma. In uno spazio contenuto l’artista articola una scena complessa e densa, animata da un forte sentimento drammatico, nella quale il deciso luminismo fa emergere i brani principali (l’anziano Abramo sulla sinistra, Agar di spalle al centro affiancata dal piccolo Ismaele), lasciando poi modo di scoprire il ricco tessuto di figure che appena emergono dalla penombra (la moglie di Abramo, Sara, col volto compiaciuto, e il loro primogenito riccioluto Isacco), ma che sono necessarie a sostenere il racconto.
Il soggetto della cacciata di Agar e Ismaele nel deserto da parte di Abramo, spinto dalla moglie Sara ormai certa della discendenza in Isacco, fu più volte proposto dal pittore, anche in forme non dissimili; la composizione pratese appare comunque la più ricca e studiata della serie, e le sostanziali varianti escluderebbero che si tratti di una copia di bottega, anche se l’intervento di collaboratori dell’artista resta comunque possibile. La figura di Agar, la cui idea fu spesso ripresa da Mattia Preti anche in dipinti di diverso soggetto, è certamente un brano felice e riuscito per la dinamicità e l’evidenza plastica: ci si soffermi ad esempio sulla ciocca di capelli, che dato il movimento repentino della testa sembrano sospesi nell’aria, così come la sciarpa, che rimane come immortalata in un fermo immagine mentre Agar si volta verso Abramo un’ultima volta.
Le ultime ricerche condotte sul dipinto indicano una sua provenienza romana, in particolare dall’abitazione privata di Monsignor Giuseppe Vaj che, privo di discendenza diretta, lasciò eredi del suo patrimonio i Vaj di Prato sul finire del XVIII secolo.