Arrigo Del Rigo
Arrigo Del Rigo
Autoritratto, particolare
Arrigo del Rigo nasce a Prato il 14 giugno 1908.
Nel 1920 la famiglia si trasferisce a Corfù, dove rimane sicuramente fino al 1921. Sono di questo periodo le sue prime pitture di paesaggio che rivelano un’acerba sensibilità e una precoce passione per l’arte. Al rientro in Toscana, dopo aver soggiornato brevemente a Venezia, si iscrive all’Istituto d’Arte di Porta Romana, dove il pittore Giovanni Costetti “lo educa al gusto dell’impasto liquido e dell’asciutta, quasi secca fattura” (Parronchi, 1956). Gli anni dal 1922 al 1925 sono quelli di rigorosa formazione, insieme a compagni di talento come Giorgio Romani e più tardi Bruno Becchi e Mario Maestrelli. In questo periodo si cimenta in paesaggi, dall’accento quasi sognante, avvolti in una luce ovattata e intima (Sant’Anna, 1925). L’attenzione verso la figura umana diventa sempre più presente nella sua opera; comincia a emergere in alcuni ritratti (La cugina, 1926; La madre, 1927) un forte coinvolgimento psicologico, risolto all’interno di un autentico realismo toscano. Sarà l’amicizia con Ardengo Soffici, che conosce nel 1927, a rinforzare l’insegnamento artistico della scuola e a segnarne la nascita come artista. Secondo Parronchi (1956) Soffici gli avrebbe aperto la strada verso la “monumentalità” dei ritratti dei familiari (Il nonno, 1927) e la “infinitesima costruttività” delle nature morte.
Gli stessi valori plastici sono presenti in alcuni paesaggi dello stesso periodo (La casa rossa, 1927).
Il 1927 segna la collaborazione di Del Rigo con “Il Selvaggio” di Mino Maccari con un disegno, seguito nel 1928 da cinque disegni e incisioni: d’ora in poi sono molteplici le occasioni d’ispirazione artistica per Del Rigo, che rivela un interesse non del tutto scontato per episodi di vita quotidiana, che esalta attraverso la ritualità dei piccoli gesti e la narrazione bonaria. In alcune opere affiora l’attenzione verso l’esistenza umana, che egli valuta con accenti di tenerezza e partecipazione, senza malignità o risentimento, filtrata attraverso gli occhi di un poeta.
Dall’aprile del 1929 il pittore presta servizio militare nel I Reggimento Granatieri di base a Roma, Riofreddo e Parma: è un periodo sereno, in cui non mancano le soddisfazioni anche sul lavoro. Lui stesso in una lettera da Parma del 17 settembre del 1929 ne parla con toni entusiastici: “Devo fare delle decorazioni per la casa del Granatiere con degli stemmi, figure e fregi. Un lavoro di soddisfazione… Si sta come papi. La città è simpatica e calma; mi ricorda anzi per questo lato la mia città di Prato dalle costruzioni semplici e serie, le piazze vaste e un fiume sassoso come il Bisenzio”.
Al ritorno a Prato trova invece un clima di contrarietà e ostilità politica. Nel marzo del 1931 viene accusato di attività sovversiva e incarcerato per pochi mesi. Insieme a lui alcuni amici - Oscar Gallo, Leonetto Tintori, Dino Fiorelli - che si ritrovavano dal sarto Zola Settesoldi per parlare d’arte e di politica.
Da quando viene liberato fino alla morte non è più sereno come un tempo: i sospetti del regime e la preoccupazione per un futuro instabile e incerto logorano intimamente il giovane pittore, che continua a lavorare forse con una consapevolezza maggiore, che sfocia nell’inquietudine (Ritratto del padre, 1931-32). La fine, inaspettata, giunge il 26 febbraio del 1932.